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A volte siamo talmente influenzati dal sentito dire da perdere di vista completamente la realtà delle cose – o perlomeno da non considerare che, specialmente in campo economico ed occupazionale, i problemi del nostro Paese non sono esattamente come appaiono dai post su facebook.

Recentemente, ho vissuto un incontro nell’ambito della mia esperienza professionale di coach linguistico che mi fa pensare che la crisi dell’occupazione giovanile in Italia sia, tutto sommato, una fake news. Allora ho pensato di lanciare una sfida (o un appello, se vogliamo) per verificare se sia vero che “non c’è lavoro” o se, piuttosto, i problemi dell’occupazione giovanile in Italia siano diversi, o comunque non compresi fino in fondo.

Una delle domande più frequenti che mi viene fatta dai miei clienti: quali sono le differenze tra coaching di lingue e un normale corso di inglese? Sapendo che l’unico modo per comprendere queste differenze sta nel vivere in prima persona l’esperienza del coaching e poi giudicare da per se stessi, normalmente mi limito alla risposta standard: il coaching è basato su un 100% di conversazione in inglese, dove l’italiano è esplicitamente “vietato”. Nella maggioranza dei casi, le persone si accontentano di questa risposta. A volte, invece, trovi un cliente che non si accontenta della prima risposta (sono quelli che ti danno più soddisfazione) e ti trovi costretto a spiegare più in profondità, arrivando sì ad essere più preciso ed esaustivo, ma anche avvicinandoti pericolosamente al rischio di spiacevoli malintesi. Provo a spiegare con un esempio.

Michele, poco meno di 30 anni, è figlio di un piccolo imprenditore locale, e mi chiama per “migliorare il mio inglese”. Come nella media dei clienti che mi contattano, Michele ha un buon inglese di base e, come di consueto, quando indago più a fondo per identificare un obiettivo quantificabile, tangibile, mi chiarisce che ciò che desidera è in realtà portare il suo inglese ad un livello che gli consenta di condurre negoziazioni con i partner internazionali della piccola impresa familiare, fondata dai suoi genitori che tra qualche anno gli sarà completamente affidata. Michele ha già avuto diverse esperienze di corsi d’inglese, trovandosi sempre insoddisfatto dell’esperienza, senza però essere in grado di chiarire (soprattutto a se stesso) le ragioni concrete di questa insoddisfazione.

Ordine Ingegneri Province di PG e TR

Il mondo sarebbe un posto meraviglioso, se solo non ci fossero gli esseri umani.

Se la pensi così anche tu, c’è una buona probabilità che la tua professione sia quella dell’ingegnere – proprio come uno dei padri della moderna organizzazione del lavoro, quel famoso Ing. Fredrick W. Taylor che trovava i suoi simili estremamente irritanti, perché intrattabili, imprevedibili, difficilmente gestibili, e capaci, in breve, di inceppare il meccanismo perfetto della sua “organizzazione scientifica del lavoro”.

Nel mio ultimo contributo (pubblicato anche su Umbria24), ho affermato che la sfida attuale per lavoratori ed imprese della nostra regione consista nell’aprirsi all’estero attraverso un cambiamento radicale e concreto del nostro modo di interagire. Che si tratti di un colloquio di lavoro in lingua, o dello sviluppo di alleanze di business con imprese estere, ho affermato nell’articolo, il primo passo è la disponibilità ad apprendere e sopratutto a “disimparare abitudini e modi di fare che non hanno senso nel contesto attuale”. Parto da qui per chiarire più concretamente di cosa si tratti.

La necessità di modificare le proprie abitudini è una condizione comune a tutti i clienti che incontro nel mio mestiere di coach di comunicazione in inglese e francese. Che si tratti d’imprenditori, professionisti, consulenti, di studenti universitari o di laureati, tutti si scontrano con quest’ostacolo. Ad un primo impatto, tutti trovano “difficile” proprio l’atto iniziale (più avanti spiego che la difficoltà non esiste, in realtà): disimparare, ed aprirsi a nuove e più efficaci modalità di comunicazione per raggiungere i propri obiettivi, per superare il colloquio di lavoro, stringere una alleanza con un’impresa estera, condurre a buon fine una trattativa.

Un caso recente può fornire un ottimo esempio di questo fenomeno e di come superarlo. Da circa sei mesi, sto aiutando uno studente asiatico residente in Umbria a prepararsi ad affrontare il test di ammissione in inglese alla Facoltà di Economia (si, sembra miracoloso ma esistono anche università italiane che offrono corsi di laurea tenuti unicamente in inglese). Ho chiesto al brillante giovane studente di spiegarmi la sua idea di quali siano le competenze richieste per superare con successo il test, che include anche un esame orale. La prima risposta, comune (ed altrettanto errata) alla gran parte dei miei clienti, è stata “l’inglese, ovviamente”. La seconda, “la conoscenza delle materie di studio”. In realtà, entrambe le risposte si basano su una comune, ed errata convinzione: che l’ingrediente fondamentale per avere successo sia nel bagaglio di conoscenze a disposizione della persona. Utilizzando un’analogia, gran parte delle persone è convinta, sbagliando, che il successo nel lavoro o nello studio dipende da “quanti Gigabyte di conoscenze” siano accumulate nel proprio “hard disk”. Errore importante: oltre al fatto che un nuovo lavoro, o un nuovo ruolo da universitario, o da partner di un’impresa estera comporta necessariamente l’acquisizione ex novo di conoscenze specifiche all’attività che si andrà a svolgere (e magari l’obsolescenza di quelle già possedute), lo sbaglio sta in una concezione distorta di cosa sia in effetti una competenza, o una skill, come viene chiamata in inglese. Che si tratti di un esame di ammissione, un colloquio di lavoro, o un business meeting, è la competenza ciò che l’interlocutore ha più interesse a verificare, a testare. Per continuare con l’analogia: non è la capacità dell’hard disk, ma la funzionalità del software installato. Ed è quindi sulle competenze che occorre in primo luogo riflettere ma anche (e sopratutto) lavorare. Per poterle migliorare, modificare e, se del caso, acquisire ex-novo. “Secondo te, quali sono le competenze critiche per superare con successo il tuo esame di ammissione?”: questa domanda ha lasciato il mio diligente studente asiatico basito. C’è rimasto di stucco, perché una volta chiarito che l’inglese e le materie di studio non hanno nulla a che fare con le competenze, lo studente non era in grado di comprendere cosa gli stessi chiedendo, né riusciva a trovare dei riferimenti validi nella sua esperienza. Il passo successivo è stato ripetere la domanda impiegando questa volta una definizione un po’ più specifica: “quali pensi che siano le competenze necessarie per superare l’esame a livello intellettuale, emotivo e fisico?”. La risposta, ancora una volta, ha rivelato una concezione molto interessante, tra l’altro condivisa da moltissimi dei miei clienti: “ti riferisci al sorridere quando affronto l’esame orale? Al fatto di essere simpatici durante il colloquio?”. Nuovo imbarazzo quando ho spiegato che interagire con un interlocutore che ci sta valutando richiede un insieme complesso di skills: le capacità fisiche di muovere la muscolatura della bocca e della gola per ottenere una pronuncia corretta e in generale di accompagnare ciò che si dice con una postura, un tono di voce, uno sguardo che rinforzino il messaggio (non a caso, una delle competenze critiche di un qualsiasi selezionatore del personale è saper “leggere” la comunicazione non verbale del candidato); capacità emotive di gestione dello stress implicato in un colloquio di valutazione e di richiamo della propria storia personale, per renderla convincente, “vera”; capacità intellettuali di analisi critica di ciò che l’altro ci sta dicendo, di confronto dialettico (questo è incomprensibile in Italia, paese dove si premia soprattutto la sottomissione ai superiori, ma all’estero una delle competenze più apprezzate è la capacità di esprimere critiche costruttive a ciò che dice la persona che ci sta valutando) e sopratutto di sintesi. Usando una metafora: essere in grado di “andare oltre gli alberi per vedere la foresta”. Da ultimo, la skill più importante, che coinvolge intelletto, fisico, ed emozioni: saper entrare in una relazione empatica con l’interlocutore, comprendendo ciò che ci sta realmente chiedendo.

Ribadisco: che si tratti di uno studente, un neolaureato, un professionista, un imprenditore, un’azienda o l’economia di una intera regione come l’Umbria, superare la crisi richiede principalmente la disponibilità a mettersi in gioco per sviluppare competenze: imparare a fare, ad agire, in modo diverso da quello al quale siamo abituati e col quale siamo confortevoli – ed è questa la ragione per cui gran parte delle persone trovano “difficile” incamminarsi su questa strada. Molti finiscono così per lasciar perdere, ritraendosi nel proprio “spazio sicuro” e consolandosi con delle spiegazioni che chiamano in causa insormontabili ostacoli esterni. Alcuni però accettano la sfida, come il mio giovane studente asiatico. Nel prossimo pezzo cercherò di chiarire in che modo, attraverso il metodo del coaching, si possa lavorare sulle competenze e, incidentalmente, spiegherò perché lo slogan che “l’Università non prepara al mondo del lavoro” sia una sciocchezza pazzesca.

Nel frattempo, però sarebbe forse il caso che anche noi umbri cominciassimo a chiederci se siamo veramente disposti a metterci in gioco, a disimparare, a metterci al lavoro con intelletto, corpo ed emozioni per trasformare l’economia della nostra amata regione in un progetto che tenga veramente la strada.

AngeloFanelli*

 *Ex docente Bocconi ed ex professore di Management e Risorse Umane in diverse business school statunitensi ed europee, Angelo Fanelli è nato a Perugia, dove vive e scrive libri (tra cui molto successo ha avuto il pamphlet ironico contro la globalizzazione intitolato “Fate Poco. Ovvero come un anziano settantaduenne mi convinse a mollare la gestione delle Risorse Umane per cercare una gestione umana delle risorse”, ed. liberopensatore.it, 2011), favole per bambini, spettacoli teatrali, e prodotti multimediali. Professionalmente, Angelo lavora da anni come coach di comunicazione in inglese e francese e consulente aziendale.

L'identificazione dei livelli di conoscenza della lingua, e di conseguenza degli obiettivi del processo di coaching è basata sul confronto tra il coach e il cliente ed ha come principale strumento la curva di apprendimento. Ecco un esempio di impiego di questo strumento per la identificazione di tempi ed obiettivi del percorso di coaching con un cliente: