
Può esserci una relazione tra mondo delle imprese e yoga?
Non è forse l’antica disciplina del subcontinente indiano qualcosa di “riservato” ai vari hippy, figli dei fiori e apocalittici vari del nostro tempo?
Come direbbe Di Pietro: “che c’azzecca?”.
C’azzecca, eccome.
Perlomeno per quanto riguarda il sottoscritto.
Approfitto della recente pubblicazione del mio nuovo libro, “A Casa dello Yogi: Esperienze di Yoga nell’Ashram Italiano” (edizioni liberopensatore.it) per stendere qualche riflessione in merito.
Parto da una constatazione. Viviamo in nella cosiddetta “società della conoscenza”, dove purtroppo per “conoscenza” si intende prima di tutto conoscenza intellettuale: vale a dire, un insieme di cognizioni che, localizzate nella corteccia cerebrale, possono essere facilmente trasformate in “prodotti e servizi” attraverso il semplice uso di una tastiera (mi scuso per la semplificazione, chi volesse approfondire mi contatti e posso consigliargli diverse letture in merito).
Il punto che a volte dimentichiamo è che, purtroppo, non tutto può essere ridotto a questo livello di “conoscenza” e molto spesso ciò di cui sentiamo la mancanza nella nostra attuale società tecnologica è proprio qualcosa che trascenda da questo ambito.
Mi permetto di usare una storia citata dal grande neuro-scienziato V.S. Ramachandran nel suo libro “L’Uomo che Credeva di Essere Morto” (Mondadori 2012). Un antico mito indiano racconta che Brahma, il Dio della Creazione si trovò a mettersi le mani nei capelli poco dopo aver creato tutto l’Universo. 
“Perché sei triste?”, chiese la sua consorte Saraswati. Purtroppo, pur circondato da fiori, uccelli, alberi, musica e la magnifica Gloria delle Amministrazioni Pubbliche Italiane, “gli uomini che ho creato non apprezzano affatto la bellezza della mia creazione, e senza questo apprezzamento, tutta la loro intelligenza non vale nulla” (il sospetto che forse sarebbe stato meglio fermarsi alla musica non sfiorò Brahma). Al che, la dea Saraswati reagì donando all’umanità l’arte. Il senso estetico, quindi, come “antidoto” o, se vuoi, come naturale riequilibrio di un mondo che non può essere fondato solamente sulle elucubrazioni intellettuali ma che ha bisogno di connettersi ad una sostanza, la bellezza, che incorpora non solo l’estetica, ma anche l’etica, la giustizia, e l’armonia.

Penso che a questo punto sia chiaro il succo del mio discorso: il buco nero del mondo contemporaneo, ed in particolare il mondo delle aziende, è una “genetica” diffidenza, quando non una vera e propria idiosincrasia, per tutto quello che non è misurabile, quantificabile, trasformabile in cifre e lettere tangibili. Uno degli elementi che appartengono a questo dominio è il corpo, e con esso l’equilibrio e l’armonia della persona che lo abita – e per questo è diventato quasi un archetipo della nostra società l’uomo di successo dal punto di vista professionale che vive una esistenza miserabile dal punto di vista familiare, sociale, amicale, quando non direttamente dal punto di vista della salute fisica e mentale.
Riconnettersi a questa dimensione – una dimensione dove non ci sono obiettivi da raggiungere, dove la velocità è meno importante della gentilezza, dove la non-violenza è privilegiata rispetto alla aggressività, dove la priorità è quella di uno sviluppo equilibrato e di un altrettanto paziente lavoro sulla guarigione dalle innumerevoli malattie che affannano il nostro tempo – può, paradossalmente, aiutare il mondo aziendale a crescere in modo più sano. E soprattutto, a fare in modo che chi quel mondo lo vive quotidianamente – i manager, gli imprenditori, i lavoratori, i sindacalisti (lasciamo da parte i politici, che si nutrono di altre materie) – possa prendere decisioni appoggiandosi ad un proprio equilibrio interiore fondato sulla serenità e sulla salute. Gli antichi latini dicevano “mens sana in corpore sano”, ed estendendo questo detto alla nostra società è impensabile una “società della mente” sana quando il corpo delle persone che la compongono è malato, stressato, afflitto da mille ed una condizioni patologiche.
Il libro A Casa dello Yogi parla di questo, e lo fa in prima persona perché dopo vent’anni come specialista di leadership e management mi sono trovato nella condizione di voler individuare delle vie d’uscita alla malattia che, nel frattempo, mi aveva colpito – e nel trovarla in una pratica come quella dello yoga. Questo volume è il racconto della mia esperienza di sei anni con la pratica dello yoga, oltre che un esperimento con la distribuzione via internet poiché il volume è acquistabile, al momento, solamente QUI (spedizione gratuita in tutta italia):
Spero che possa essere d’aiuto a chi è convinto che il successo professionale non possa essere scisso dal successo personale.
AngeloFanelli*
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*Ex docente Bocconi ed ex professore di Management e Risorse Umane in diverse business school statunitensi ed europee, AngeloFanelli è nato a Perugia, dove vive e scrive libri (tra cui molto successo ha avuto il pamphlet ironico contro la globalizzazione intitolato “Fate Poco. Ovvero come un anziano settantaduenne mi convinse a mollare la gestione delle Risorse Umane per cercare una gestione umana delle risorse”, ed. liberopensatore.it, 2011), favole per bambini, spettacoli teatrali, e prodotti multimediali. Professionalmente, Angelo lavora da anni come coach di comunicazione in inglese e francese e consulente aziendale.









Credo che questi quattro soggetti dovrebbero riflettere prima di tutto su un punto: se quella che l’economia umbra sta vivendo è una situazione straordinaria (cioè non-ordinaria, non comune, inattesa, imprevista, diversa dal passato), non se ne esce con soluzioni ordinarie. Serve un cambiamento rispetto alla nostra normale maniera di agire. Alla nostra: non “dei politici”, non “degli amministratori”, non degli “altri”, ma di noi stessi. Ciascuno che sia realmente interessato a mutare l’attuale stato delle cose ha il dovere di guardare in casa propria. Personalmente sono convinto che la radice del problema sia nell’apertura all’estero, per cui mi limito a fare osservazioni su questo (è probabile che si possano estendere anche al contesto indigeno, ma in questa sede non lo faccio). L’imprenditore, che si rivolga all’”estero interno” (ad esempio attraverso il turismo in Umbria, l’immobiliare, l’accoglienza, ecc.) o all’”estero-estero” (ad esempio nell’agroalimentare, ma anche nell’elettromeccanica avanzata, nella meccatronica, ecc.) ha il dovere di chiedersi: “quanto a lungo sarò in grado di mantenere il modello di business che mi ha fatto arrivare fin qui?” Per i più fortunati, la risposta è: “abbastanza a lungo da studiarne ed implementarne uno nuovo”, mentre per gli altri è “troppo poco per evitare di essere messo sotto questo rullo compressore”. In entrambi i casi, siamo in una situazione di emergenza, con la sola differenza che nel secondo è un’urgenza che deve solo portare a minimizzare le perdite ed uscire onorevolmente da una situazione irrimediabile, mentre nel primo si tratta di un’urgenza che può (e deve!) trasformarsi nella motivazione a battere con forza strade nuove e ad abbandonare vecchie abitudini. Un esempio per tutti: riuscire a dare fiducia a persone assunte non sulla base di rapporti di amicizia o “conoscenza” (termine veramente paradossale, se ci si pensa bene) ma sulla base di competenze misurate – un mutamento che richiede, ovviamente, che l’imprenditore sia in grado di rispondere alla domanda: “tu, dove vuoi andare con la tua impresa?” e di conseguenza sia in grado di identificare (da solo o con l’aiuto di professionisti) le competenze necessarie alla nuova rotta da seguire, di trovarle sul mercato (e non tra i propri “conoscenti”), di selezionarle, e, certo, “scommettere” su delle persone “sconosciute” sapendo che l’ignoto non nasconde solo mostri terribili ma anche delle belle sorprese. Nel mio lavoro di coach e consulente aziendale ho incontrato diversi imprenditori di questo tipo – in genere, si tratta di persone timide al cui interno brucia una qualche passione non condivisa (o magari invisa) da altri, che a volte rasenta l’ossessione, e sono quindi sufficientemente marginali rispetto al “business as usual” umbro da potersi permettere veramente di rischiare. Un esempio per tutti, Giovanni Cenci,